Sparsa le
trecce morbide
sull’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel.
sull’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel.
(A. Manzoni,
“Adelchi”, atto IV)
La figura di
Ermengarda, la sposa ripudiata da Carlo Magno, sarebbe rimasta intrappolata per
sempre nell’oblio, dimentica di lei la storia, condannata a una sorta di damnatio
memoriae già dagli storici suoi contemporanei, concentrati i cronisti,
evidentemente, sui grandi personaggi maschili protagonisti del dramma che
avrebbe cambiato il volto dell'Italia, se Alessandro Manzoni, nella tragedia
“Adelchi”, non le avesse conferito nuova dignità in virtù del suo dolore,
facendola passare dalla stirpe degli oppressori alla schiera degli oppressi,
tanto che, ancora oggi, la sventurata fanciulla sembra appartenere più alla
poesia che alla storia. Fu Manzoni a riscoprirla, a “inventarle” un'anima,
riproponendo la sua triste vicenda all'attenzione degli uomini, facendola,
così, nascere a nuova vita: la vita della poesia. Vittima innocente delle
feroci passioni degli uomini, agnello sacrificato sull'altare della necessità
politica, grazie al poeta il suo nome divenne quasi il simbolo di un destino
infelice e la sua patetica immagine entrò nella fantasia popolare, suscitando
sempre un senso di triste compianto.
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