“Panda Rei” Laura Binello
Un cavallo per lo sceriffo, una Panda per l'infermiera. Di collina in collina, di visita in visita, prende forma un almanacco di umanità: malattie e speranza, paura e sorrisi. Ogni viaggio si trasforma in un racconto sulla punta delle dita, ogni casa in un teatro. E forse solo la narrativa può restituire, almeno in parte, il sapore di ciò che accadde.
Un piccolo estratto:
“L’immagine di un campo appena arato si offre ai miei occhi appena dopo la doppia curva. Solo qualche mese fa dopo le due solite curve ti trovavi dentro un quadro di Van Gogh con grandi girasoli e fragili papaveri sopravvissuti ai diserbanti e l’anno prima nello stesso pezzo di terra c’erano le spighe rarefatte dell’orzo seminato a febbraio.
Ma le zolle di terra appena arata profumano di fertilità, di semina e buoni raccolti. Strade che percorro ogni giorno con la mia Panda, strade asfaltate, ora sterrate, case e cortili che negli anni mi hanno dato l’opportunità di disegnare una mappa del territorio e dei suoi bisogni umanitari ben diversa da quella aziendale. Come variano le stagioni e le coltivazioni così variano le situazioni famigliari, le storie, gli eventi, anno dopo anno.
Mi accorgo che chilometro dopo chilometro ho messo insieme una miriade di informazioni che sono oggi il mio patrimonio assistenziale. Dentro ogni casa c’è prima di tutto una famiglia o quel che resta di essa. Esserci entrata per qualche ragione sanitaria in tutti questi anni mi ha permesso di disegnare il territorio così come lo immagino io, un pezzo di terra fertile, dove non sempre semini e se semini non sai se raccoglierai, ma una terra morbida, friabile, umida spesso vittima di privazioni e degli effetti di una spending review che non guarda in faccia nessuno. Una terra buona, abitata da gente semplice, abituata ad arrangiarsi, e a subire i danni delle stagioni e delle politiche, un terroir per ottimi vini ma anche una boscaglia di vite borderline che nella mia mappa hanno un posto in prima fila, sempre.
E’ nei cortili di queste case che trovano ispirazione le mie storie, è nelle cucine che incontro donne che hanno voglia di raccontare e di elaborare situazioni spesso complesse che interessano a nessuno. La vita sovente ha una pessima trama e a me piace immaginare, dove possibile, un lieto fine. Come oggi, incontrando Vigìn. Mi telefona con aria concitata la figlia di un mio assistito campagnolo. E’ un pomeriggio di agosto, caldo inesorabile. Il nonno non sta bene. Arrivo nella grande casa di campagna e avverto subito una atmosfera agitata, le donne preoccupate, i bambini che corrono sull’aia, eccitati. Il capofamiglia mi tira in disparte e mi spiega il problema. Il vecchio padre è da alcuni giorni affetto da allucinazioni. Vede serpenti, fuochi inesistenti. Ora si è posto al centro del campo di grano, con in mano un forcone, e minaccia di colpire chiunque si avvicini.
La situazione, apparentemente comica, vista l’età del paziente (novant’anni suonati), in realtà non lo è affatto, ed io non ho la minima idea di come affrontare il problema anche perchè ci vorrebbe un medico e un ricettario suppongo, tutta roba che io non sono e non ho, ma vaglielo a spiegare a questi qui, mi telefonano a giorni alterni per mille cose, di mia competenza e non, una volta non piscia, una volta non caga, una volta ha la febbre e una volta gli prude un orecchio….. I familiari mi guardano con diverse aspettative. I grandi con attesa, le donne con trepidazione, i bambini con divertimento, eccitati da quello spettacolo insperato. Qualcosa devo pur fare.
Mi avvicino con circospezione alla figura immobile sotto al sole, mantenendomi a distanza di sicurezza, con l’ inutile borsa da lavoro in mano, e mi siedo su un covone, cercando le parole da dire. Intorno le cicale sottolineano il paesaggio d’agosto. Eccomi lì, come incastonata in un quadro di Van Gogh, con la mia inutile borsa, simulacro della mia autorità sacerdotale. Mi passa in testa la storia del paziente, l’anno scorso episodi di coma ricorrenti, definiti da me sempre con aria compunta, innegabilmente gravi. Un paio di giorni e il nonno si riprende, e me lo ritrovo con aria beffarda intento ai lavori che gli consentono i figli. Una volta gli furono somministrati i sacramenti, persino. Ed ora eccolo qui, che mi fissa con aria bellicosa, per fortuna scorgo alla fine nei suoi occhi ammiccanti un principio di riconoscimento.
Vigìn sono proprio io, l’infermiera, ti ricordi? Lo so, lo so che lo vogliono avvelenare, ma non avrebbe voglia di un bicchiere d’acqua? Mi guarda con improvviso sospetto. Poi rassicurato dal fatto che gli dichiaro che se lo sarebbe versato da solo, cede. Più difficile fargli lasciare il forcone, attrezzo che maneggia con notevole perizia. Alla fine ottengo anche questo, e a braccetto lo riaccompagno in casa.
Nel mentre telefono al suo medico che è in vacanza a Malindi (fanculo pure lui), gli parlo ancora. Mi fissa con i suoi occhi chiari . Afferra poco dei miei discorsi. Si sdraia spossato. Agli occhi del piccolo pubblico ho ottenuto un successo. C’e’ aria di applauso. Tre giorni dopo il vecchio se ne va. E il lieto fine? Non sempre c’è, fatevene una ragione, sono storie di vita non favole. Ma se non posso garantire un lieto fine cerco di promuovere, ogni volta, un buon inizio. E’, stringere le mani per fermare qualcosa che e’ dentro me, ma nella mente tua non c’e’. Capire tu non puoi.
Tu chiamale se vuoi ‘prestazioni’ ”.
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